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INTERVISTA ALL'ALPINISTA GIANNI RUSCONI

Maurizio Torri
14/8/2011

VI PROPONIAMO L'INTERVISTA CHE ABBIAMO FATTO ALL'ALPINISTA GIANNI RUSCONI

Il Pizzo Badile (3305m), oltre ad essere uno dei simboli alpinistici delle Alpi Centrali, è indubbiamente la vetta più rappresentativa della Val Porcellizzo. Da molti definito come la "montagna di granito per eccellenza", è stato da sempre banco di prova per alpinisti di rango.

Se nel 1937 Riccardo Cassin salì il versante nord insieme a Vittorio Ratti, Gino Esposito, Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi, anche altri lecchesi legarono indissolubilmente il loro nome a questa parete: fra loro i fratelli Gianni e Antonio Rusconi, in vetta il 19 marzo 1969...

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti, ma la "Via del Fratello" in invernale resta un ingaggio di livello: «La prima volta che mi sono trovato di fronte a questa formidabile parete, mi sono sentito quasi soggiogato – ci ha raccontato Gianni Rusconi al caldo del focolare nella sua casa in località Zocca a Filorera -. Mi sembrava la montagna perfetta. Nonostante il timore quasi reverenziale, notai la possibilità di tracciare una nuova via sul versante nordest: un itinerario elegante e logico. Difficile, ma per questo ancor più desiderabile».

Quando nacque l'idea di azzardarla in invernale?

«Inizialmente non si pensava di salirla in inverno. Si partì infatti nell'agosto del '69 insieme a Franco Giorgetta, Giuliano Maresi, Gianluigi Lanfranchi e Roberto Chiappa. Ma quel primo tentativo naufragò causa maltempo. Tre giorni dopo la riprovammo con un'altra cordata, ma le grandinate si susseguivano sempre più fitte».

La situazione come si evolse?

«Maturò l'idea di provarla in invernale, ma stavo diventando padre per la seconda volta e non me la sentivo di lasciare mia moglie in pensiero. Il 9 gennaio del 1970 nacque mia figlia e, ottenuto il via libera, mi organizzai. Il 13 ero già operativo con mio fratello e due amici. Anche questa volta il brutto tempo ci frenò. Risalita la Val Bonadasca lasciammo il materiale alla base della parete in una truna sotto quello che per noi era il "sassone". L'assedio proseguì a più riprese, ma dovemmo sempre fare i conti con un meteo tutt'altro che favorevole».

Nei continui andirivieni da Lecco quale era lo stato d'animo?

«Eravamo indubbiamente demoralizzati. Non ci fosse stato quello speciale legame tra noi e la parete, avremmo mandato al diavolo il Badile e la Val Bondasca. Anche il più audace degli innamorati, infatti, si stufa della sua bella se questa continua a respingerlo. Noi avevamo però un preciso intento. Volevamo tracciare una via sull'inviolata parete nordest per dedicarla a nostra fratello Carlo, caduto in Grignetta».

Il 28 febbraio pensavate fosse la volta buona:

«Trascorsa la notte al Sassone, fummo svegliati da un'insolita luce che dalla galleria di neve penetrò sino ai nostri bivacchi. Come se non bastasse il freddo ci indusse a pensare che fosse giunto il gran momento. Toccammo il punto massimo raggiunto in precedenza e salimmo sino a raggiungere un terrazzino. Erano le 8 di sera. Recuperato il materiale ci coprimmo con un cellofan e ci preparammo ad affrontare la notte. Il giorno dopo, come nel più classico degli incubi la neve era tornata a farci visita. Ciò nonostante coprimmo altri due tiri sino a raggiungere la cengia che sta sopra gli strapiombi. Alle undici di notte il nostro bivacco era bello che saltato: il cellofan non teneva il peso della neve».

In quei momenti non certo facili cosa avete provato?

«Quella neve che pesava sulla testa, spalle e gambe ci soffocava. In più di un'occasione invocammo l'alba che poi alla fine è puntualmente arrivata. Quel giorno salimmo solo una decina di metri, poi l'ennesima notte di agonia. Ricordo che alle 3, mio fratello si mise a piangere; mi lasciai trascinare anche io in quello sfogo liberatorio. La mattina dopo, con non poche difficoltà, cominciammo una mesta ritirata. In quell'occasione la sorta fu dalla nostra e il giorno successivo eravamo puntualmente al lavoro».

Quando l'attacco decisivo?

«All'alba del 14 di marzo nevicava ancora, eppure decidemmo di partire. Il giorno dopo attaccammo gli strapiombi: il pezzo più duro di questi 900 metri di parete. Due tiri ed eravamo sotto il grande tetto. Vista l'ora, tornammo alla cengia sotto il nostro telo. Il terzo giorno di scalata – il 16 di marzo – andò nel fare risalire quanto più materiale possibile lungo la parete. Poi ridiscendemmo ancora a bivaccare sulla cengia. Un'altra notte sotto il telo. Un'altra notte gelida e partenza. Sembrava impossibile, ma anche sotto il grande tetto c'era neve. Fuori dagli strapiombi, ci investì una bufera furiosa: le raffiche erano così veementi che ci costrinsero ad aggrapparci con tutte le forze per non essere portati via».

18 marzo, altra giornata in parete:

«Per fare in fretta non smontammo nemmeno il bivacco. Abbandonammo parte del materiale fotografico, i viveri superflui e anche qualche capo d'abbigliamento. Volevamo la vetta. Quella notte, al nostro quinto bivacco consecutivo, l'essere ancorati al granito ci salvò dal sopraggiungere di una valanga di notevoli dimensioni. Il materiale sparì e ci trovammo sospesi alle corde, in balie di altre quattro scariche. Intorno a noi tutto era allucinante e nemico. La nostra cena fu torrone e cioccolato: quel poco che avevamo ancora in tasca. Da bere, nulla. Le slavine continuarono tutta la notte. Mio fratello, oppresso e quasi soffocato dal peso della neve, si domandò più volte se fosse arrivato all'indomani. Che dire, penso che quella sia stata la notte più lunga e desolante di tutte le nostre scalate».

Cosa vi diede la forza di proseguire?

«Alla mattina del 19 marzo eravamo a pezzi, ma dissi a mio fratello di farlo per Carlo. Lui era un duro. Ci mancavano 100 metri e per superarli impiegammo 8 ore e mezzo. Fu straziante, giunto in cima la "Via del Fratello" era compiuta. Mi inginocchiai e mi misi a pregare: un attimo intenso, ma brevissimo. Poi recuperai mio fratello e ci trascinammo sino al bivacco».